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È interessante che un artista visuale come Brian O’Doherty (1928-2022), nella sua prima prova come romanziere, abbia affrontato il tema della cecità e del recupero della vista. Se come teorico è noto soprattutto per aver introdotto e diffuso il concetto di white cube per interpretare lo spazio espositivo della galleria d’arte contemporanea, come artista – con il suo vero nome o con quello del suo alter ego Patrick Ireland (1972-2008) – si è più volte dedicato a indagare il ruolo dei sensi e, in particolare, della vista: possono essere ricordate in merito la performance Labyrinth as a Straigh Line (1966) – consistente nel camminare con gli occhi bendati su un’asse sospesa – l’opera composita The Five Senses of the Bishop of Cloyne (1967-68) – dedicata a George Berkeley, il filosofo dell’esse est percipi – e l’opera altrettanto composita realizzata col medium fotografico The Transformation, Discontinuity and Degeneration of the Image (1969-).

labyrinth straigh

[Brian O’Doherty, Labyrinth as a Straigh Line (1966, performance, New York 1979). Da Brenda Moore-McCann, Brian O’Doherty / Patrick Ireland: Between Categories, Lund Humphries, Farnham-Burlington 2009, p. 137.]

Come romanziere, nel libro The Strange Case of Mademoiselle P. (1992, tradotto anche in italiano), O’Doherty rilegge la vicenda di Maria Theresia von Paradis (o Paradies), pianista e compositrice austriaca per la quale composero Haydn, Salieri, suo maestro di canto e composizione, e (pare) Mozart (il Concerto per pianoforte n. 18, K. 456, secondo l’interpretazione seguita anche nel romanzo). Mademoiselle P. perse la vista in giovane età e fu affidata alle cure del noto scienziato Franz Anton Mesmer, che riuscì a ottenere, almeno temporaneamente, un recupero parziale.

Per comprendere il senso dell’interesse di O’Doherty per questa vicenda, che allora destò scalpore negli ambienti della corte imperiale viennese, vale la pena di leggere un passo, in cui a parlare è Mesmer:

Compresi chiaramente che curare la sua cecità, restituirle la vista, era un’impresa molto ardua, che implicava il riapprendimento del linguaggio, del mondo e dello spazio, la nuova dimensione in cui ora si aggirava con tanta incertezza nella stanza buia. Divenni anche consapevole dell’effetto deleterio che il parziale recupero della vista aveva sugli altri sensi. Il tatto si fece confuso, l’udito paradossale, reagendo ora al minimo rumore, ora ignorando ciò che a me pareva insolitamente sonoro. La bocca divenne una zona elusiva. Spesso, a tavola, tentava di introdurre il cibo dalla guancia o dal mento, con suo grande dispetto. Sempre più sovente, quando si trovava in difficoltà, chiudeva gli occhi, rifugiandosi in quella tenebra rassicurante con cui aveva convissuto per quattordici anni della sua vita.

[Brian O’Dohery, Lo strano caso di Mademoiselle P. (1992), tr. it. di M. Muzzarelli, Baldini & Castoldi, Milano 1993, p. 23.]